Tiziano Fratus – “Il sussurro degli alberi”, Ediciclo 2013
Tiziano Fratus si definisce Uomo Radice, l’ho conosciuto al festival di Monteriggioni, e ho apprezzato la passione che ha negli occhi, si sente subito che lui con gli alberi ha un rapporto profondo, fatto di amore per la natura e per la poesia.
Da poeta (le sue poesie sono state tradotte in tutto il mondo) era arrivato nel Big Sur, in California, anni fa, sulle tracce della Beat Generation. Ma inaspettatamente era stato colpito nel profondo dagli alberi monumentali. Mi ha raccontato che in California ci sono gli alberi più grandi del pianeta. Da qui è iniziato un percorso entusiasmante, che lo ha portato a pubblicare vari libri (tra i quali Manuale del perfetto cercatore d’alberi per Feltrinelli e il recente L’Italia è un bosco per Laterza) e a tenere una rubrica fissa sul quotidiano La Stampa.
Il suo libretto Il sussurro degli alberi, pubblicato da Ediciclo, sottotitolo Piccolo miracolario per uomini radice, è un diario di pensieri liberi sugli alberi monumentali, che Fratus ama incontrare, annusare, misurare. Soprattutto le sequoie, perché sono alberi giganti, e non avrei mai sospettato che l’Italia fosse così piena di sequoie, piantate in gran parte nella seconda metà dell’ottocento per abbellire parchi, giardini e ville. Fratus viaggia alla loro ricerca, e l’idea che mi è nata è quella di organizzare un cammino con lui, a piedi per vedere questi alberi. Ne ho subito parlato con Tiziano, e lui si è detto entusiasta, quindi se tutto va per il verso giusto nel 2015 lo proporremo tra i Cammini d’autore.
In conclusione del libro, Tiziano Fratus ci spiega la filosofia dell’Uomo Radice, vale la pena leggerla:
“Un Uomo Radice vive e respira. Cammina e osserva. Si nutre. Pensa e non pensa. Quando si trova in un bosco, mentre ascolta con i sensi “accesi”, non ha bisogno dell’armamentario che ci si porta appresso in città, in società. L’esperienza conta più di qualsiasi teoria, le sue sfumature, le sue potenzialità, le sue profondità… Essere un Uomo Radice annulla le distanze, ci fa sentire un tutt’uno con l’intero creato vivente, animato e inanimato, ci fa vivere da uomini selvaggi, da aborigeni del vecchio continente, da monaci zen. Una vita colma di meraviglie.”
Claudio Jaccarino – “Damareamare. Acquarell’Andando”, La Memoria del Mondo 2013
A noi piace Jaccarino perché ha la barba bianca.
A noi piace Jaccarino perché si ostina ad andare lento.
A noi piacere Jaccarino perché pastrocchia con acqua e pennelli.
A noi piace Jaccarino perché ha un cappello colorato (da lui).
A noi piace Jaccarino perché è un intellettuale, cresciuto nella Milano alternativa del Teatro Comuna Baires (e nella comune Willavaldea in Argentina).
A noi piace Jaccarino perché è orientale e zen.
A noi piace Jaccarino perché a Jaccarino piace camminare.
E i suoi acquerelli sono uno stato dell’anima…
Intanto, se non conoscete Claudio Jaccarino, guardatevi questo bel video Jacquarello: in viaggio con Claudio, così vi fate un’idea.
E poi dovete sapere che Jaccarino ha cominciato a camminare con Riccardo Carnovalini nel Camminamare da Roma a Ventimiglia, e che dopo il cammino Gemito (Genova-Milano-Torino) ha pubblicato nel 2010 un taccuino contenente due mesi di diario ad acquerello (“Da Milano al mare – Acquerell’andando” La Memoria del Mondo Editrice) e nel novembre 2013 è uscito un secondo libro, “Damareamare – Acquerell’andando”, La Memoria del mondo Editrice, che racconta con acquerelli e testi tre cammini diversi: il Basilicata coast to coast fatto insieme a Riccardo Carnovalini, il cammino della Val di Ceno con Gianluca Bonazzi, e il Milano Venezia Slow, con il sottoscritto Luca Gianotti, Alberto Conte, Massimo Montanari, i suoi asinelli e tanti altri.
Veder dipingere Jaccarino mentre cammina fa capire il suo spirito: dipinge ovunque, nei luoghi più scomodi, e lo fa sempre con una calma invidiabile. Se gli viene l’ispirazione su un ponte trafficato, lì lui si ferma, non c’è niente da fare. Tira fuori carta e colori con un gesto rapido, poi rallenta, comincia con i primi scarabocchi che uno si chiede “dove vorrà arrivare?”. Usa le dita, fa cadere l’acqua sul foglio, oppure usa bellissimi pennelli giapponesi. Lasciatelo lavorare, perché quegli sgorbi pian piano prendono vita, e la carta trasmette l’emozione del cammino.
Il carnet di viaggio appena pubblicato è tutto questo, ogni acquerello è un racconto, e i testi sono colori anche loro. Perché, come scriveva Andrea Zuin nel suo diario, “oggi Jaccarino è venuto a colorare il cammino”.
Annalisa Porporato, Franco Voglino – “Il trekking del lupo. Per grandi e piccini”, Terre di mezzo 2014
Annalisa Porporato e Franco Voglino, coppia di fotografi torinesi e appassionati escursionisti, dopo la nascita della loro bambina si sono specializzati nella pubblicazione di libri dedicati al camminare con bimbi piccoli. Per l’editrice Graphot hanno pubblicato tre libri con proposte escursionistiche in Piemonte, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige. Per Terre di Mezzo invece ecco questo itinerario di 10 giorni di cammino sulle tracce del lupo attraverso il Parco delle Alpi Marittime in Piemonte e il Parco del Mercantour in Francia. Le distanze sono a misura di bambino, 6- km al giorno, solo in due eccezioni sono più lunghe. Si dorme in rifugio. Ovviamente se percorso da adulti si può fare in 6-7 giorni. Per i bambini lungo il percorso ci sono due centri faunistici, dove vedere da vicino gli animali dei parchi. La guida contiene la descrizione delle tappe, le mappe, gli indirizzi dove dormire. Buon cammino alle famiglie!
Jack London – “Zanna Bianca”, Feltrinelli 2014
Ci sono libri che si portano addosso etichette, e le etichette non sono mai belle. Zanna bianca ha l’etichetta del libro per ragazzi. Non ricordo se da ragazzo l’avessi letto, ma l’ho letto ora, nella nuova traduzione dell’amico Davide Sapienza. Zanna Bianca è un grande libro, un libro che emoziona, Jack London non è certo il pennivendolo popolare che si voleva far credere, ora è chiaro a tutti, è un grande scrittore, a cui rendere omaggio (e Marco Paolini lo ha fatto di recente, con un bellissimo spettacolo a teatro).
Zanna Bianca è un libro sul Wild, la natura selvaggia. È un libro sul rapporto uomo-natura. Sul rapporto vita-morte, e certe volte la vita è allontanamento dallo stato selvaggio, è addomesticamento. Le metafore di London, per esempio quella sull’essere lupi, essere cani, essere metà lupi e metà cani, riguardano tutti noi. È un libro anche faticoso, difficile accettare le ingiustizie e le violenze a cui Zanna bianca viene sottoposto. Un plauso a Davide Sapienza, che ci dona una traduzione eccelsa, credo poco adatta ai ragazzi, ma precisa e rispettosa del grande scrittore di cui lui è il massimo esperto in Italia. Chi ama la natura, chi ama ascoltarla e viverla in profondità, non può non leggere Jack London, uno dei grandi maestri della wilderness. Ecco, il compito di oggi è questo: leggetevi (e rileggetevi) Zanna bianca, per ascoltarvi in profondità e vedere che emozioni vi suscita.
Autori vari – “Non ci scusiamo per il disturbo”, Domus de Janas 2013
Questo libro fa parte di un progetto di valore. In Sardegna, a Villacidro, è nato un gruppo di cammino, con uno psichiatra e qualche infermiere, ma soprattutto un manipolo di ragazzi e ragazze con disturbi mentali. Hanno cominciato a camminare nel Supramonte, camminare nello stesso terreno selvaggio in cui la Compagnia dei Cammini porta gruppi in trekking, e i ragazzi sono cresciuti in un percorso di consapevolezza e liberazione dal disagio. Il piccolo progetto è diventato sempre più significativo, ai regolari fine settimana in Supramonte si sono aggiunti un trekking in Corsica e un trekking in Nepal, verso il campo base dell’Everest. Dal progetto è nato un film commovente, “Semus fortes” e questo libro, scritto dal gruppo di ragazzi e ragazze che da questo percorso di malattia stanno pian piano uscendo. È dunque un libro corale, che segue cronologicamente questa storia, ma con voci che entrano ed escono dal racconto del coro, un vero e proprio “inno alla vita”. Da subito i ragazzi colgono con l’intuizione sensoriale il piacere di camminare: “Spesso si cammina in silenzio, ci si isola, si ha bisogno di riflettere, di stare soli e concentrarsi; si respira tanta aria pura, si ascoltano attentamente i rumori selvaggi della natura, lo scricchiolio degli arbusti sotto i piedi, il vento, le foglie che si staccano dai rami e cadono al suolo…” (Ketty) I pensieri che i ragazzi fanno sono gli stessi che anche noi proviamo da anni: “L’attività di trekking, svolta dal gruppo di cui faccio parte, sin dalle prime uscite mi ha fatto migliorare tantissimo. Affrontare la fatica, le difficoltà tecniche dei sentieri di montagna, vivere fortemente e in maniera profonda il rapporto con gli altri membri del gruppo ha scatenato in me una energia positiva che non credevo di avere più, ed era così forte che non ricordo di averla provata in passato.” (Enrico)
Con un percorso lento ma costante i ragazzi malati di disturbi psichici hanno scoperto il valore del camminare, della vita e della libertà. Hanno spezzato le catene, ora camminano liberi verso la vita, che è lì per loro. Grazie a uno psichiatra che alla professione ha aggiunto passione, Alessandro Coni, grazie al camminare e grazie alla loro bellezza interiore.
Luigi Nacci – “Alzati e cammina. Sulla strada della viandanza”, Ediciclo 2014
Dal cammino non si torna indietro. Luigi Nacci ci regala lo strumento utile per diventare camminatori, imparando a diventare leggeri, ci serve solo un bastone, uno zaino e un paio di scarpe per prendere il volo. Rito di iniziazione all’essere viandanti. Insegna l’umiltà, l’accettazione, la curiosità, la negazione dell’io. E lo fa con un testo aggressivo, di bella scrittura, che vi colpirà come un pugno allo stomaco. Se dopo quel pugno, invece che aver voglia di ricambiare il pugno all’autore, siete scossi e stupiti, allora siete pronti per partire. A piedi. “È nella lode alla vita che ti fai viandante”: questo libro è per chi è pronto. Pronto a mettere in discussione le proprie certezze, spaesarsi, partire. Se non siete pronti, come dice Nacci, buttate questo libro.
Un libro destinato a chi è nel limbo. A chi è insoddisfatto in famiglia, o sul lavoro, chi ha perso momentaneamente la speranza di risalire la china, chi, in definitiva, per una ragione o per l’altra, cerca la propria strada e sa che è giunto il momento di partire. È un’opera che esorta alla leggerezza, l’unica condizione che permette di stare a piedi uniti nel cammino, reggendo il peso delle domande che vertono sui nostri giorni, quelli presenti e quelli che verranno.
Rachel Joyce – “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”, Sperling & Kupfer 2012
Harold Fry è un modesto pensionato di 65 anni, un pantofolaio, che vive con la moglie nel sud dell’Inghilterra. Un giorno riceve una lettera da una collega di lavoro di venti anni prima, lei gli comunica che è malata di cancro. Lui esce, per imbucare una lettera di risposta. Ma la lettera di risposta gli sembra inappropriata, decide di partire a piedi per andarla a trovare, senza rientrare a casa. Pensa che in questo modo la salverà. Lei è in una casa di cura a Berwick nel punto estremo dove l’Inghilterra confina con la Scozia. Così inizia questo romanzo, esordio bestseller di Rachel Joyce. Vi suona come un déjà vu? A molti ricorderà la storia del regista tedesco Werner Herzog, raccontata nel diario “Sentieri di ghiaccio”. Herzog lo fece davvero, andare a trovare l’amica morente camminando in modo improvvisato da Berlino a Parigi. E lei guarì. Ma questo è un romanzo, tutt’un’altra cosa.
La Joyce approfitta della visione di quest’uomo mite e debole per raccontare il mondo con occhi di camminatore, e di un camminatore che è partito con scarpe da vela e niente con sé. Ci sono tutti i valori dei camminatori dentro questo libro, si capisce che la Joyce è camminatrice. Tutti i pensieri, le reazioni, le sofferenze e gli entusiasmi. Gli incontri anche solo di pochi minuti che ti cambiano la vita. L’introspezione per cui la tua vita ti passa davanti e riemergono dalla memoria ricordi importanti che sembravano sopiti. Arriverà Harold Fry alla fine del suo cammino? Salverà la vita di Queenie, anche se non è sorretto dalla fede? Di più non vi racconteremo, sulla trama.
Entra di diritto nella biblioteca di noi camminatori.
Walter Orioli – “Camminare e sognare. Verso Santiago de Compostela”, Albratos 2013
Ho conosciuto Walter Orioli un paio di mesi fa, ma avevo sentito parlare di lui in passato, ed ero curioso di conoscerlo. Walter è una di quelle persone che ti stupisce, anche se parla poco. È una di quelle persone che sa dare valore a un sorriso, a uno sguardo, a un abbraccio. Orioli di professione è psicologo, e si dedica in particolare alla teatro terapia, tema su cui ha anche scritto alcuni libri. È camminatore da sempre. Ma il Cammino di Santiago deve averlo toccato nel profondo, perché in questo libretto racconta di come per lui sia stato un cammino di rinascita. “Camminare e sognare” si legge bene, l’occhio di Orioli è attento soprattutto ai processi interiori, propri e delle persone che incontra. Il libro è diviso in tre parti: la prima parte contiene riflessioni sul valore del camminare, una autoanalisi che Orioli fa di come il camminare ti fa cambiar pelle, come succede ai serpenti.
Scrive Orioli:
“Per i non credenti il cammino è un atto di svuotamento per mettersi a disposizione delle forze della natura, mentre per i credenti è un atto di abbandono per mettersi a disposizione del divino, ma il risultato non cambia, serve a valorizzare la nostra vita, ad avere fiducia nelle nostre capacità e, a lungo andare, a innescare dei cambiamenti sostanziali nei comportamenti.”
E Walter Orioli nel suo cammino alterna momenti di religiosità cattolica ortodossa a momenti in cui a questa si ribella in nome di una spiritualità più mistica. Anche in questo il cammino per lui è un cambiar pelle.
La parte centrale del libro è un diario del Cammino, uno dei due che Orioli ha percorso. Un diario dedicato soprattutto a guardare gli altri esseri umani e a guardare se stesso. La terza parte si intitola “Gli insegnamenti”, e il titolo spiega di cosa si tratta: il cammino sviluppa alcuni cambiamenti, attraverso un lavoro – dice Orioli – sull’identità dell’Io, sui talenti profondi, sulla consapevolezza e sulla identità psico-fisica.
Concludo con un’altra citazione interessante:
“Spesso nella vita l’azione è indirizzata al tornaconto. Sul cammino no, proprio perché il viandante non si trova nella quotidianità, ma evoca i gesti del quotidiano. Il mondo del viandante agisce con le categorie della prima natura, quella dell’azione legata ai sensi, mentre la seconda natura, quella del pensiero e del mentale, è semplicemente messa da parte, per dare massima attenzione alla percezione sensoriale degli elementi naturali – sole, vento, usignoli, grilli, rane – e nel tempo presente.”
Jean-Christophe Rufin – “Il cammino immortale”, Ponte alle Grazie 2013
Jean-Christophe Rufin è uno scrittore molto noto in Francia, ha vinto un premio prestigioso, il Goncourt, è persona di estrazione alta (medico, e ambasciatore), è un laico. Il libro sul suo Cammino di Santiago è stato un successo in Francia, 400 mila copie vendute. In Italia lo ha pubblicato Ponte alle Grazie. La prima impressione è che Rufin sia un bravo scrittore. Non parlo solo di saper usare le parole giuste, e anche questo Rufin lo sa fare. Ma parlo soprattutto di saper vedere quello che altri non vedono, o, ancora più spesso, di saper riflettere su quello che è sotto gli occhi di tutti, ma su cui non si è ancora riflettuto.
Esempio, dalle prime pagine del libro: “Andando verso Compostela, l’essenziale non è il punto di arrivo, comune a tutti, ma il punto di partenza. È quest’ultimo a fissare la sottile gerarchia che s’instaura fra i pellegrini. Quando due camminatori si incontrano non si domandano “Dove vai?” – la risposta è evidente – né “Chi sei” giacché sul cammino non si è altro che un povero Giacomeo. La domanda che formulano è “Da dove sei partito?” E la risposta permette immediatamente di sapere con chi si ha a che fare”.
Chi fa solo gli ultimi 100 km, spiega Rufin, è un cacciatore di diplomi. Chi è partito dai Pirenei, che ha camminato più di 500 km, allora è visto con il rispetto dovuto. Rispetto che diventa venerazione per quei camminatori che sono partiti da casa loro, chi è in viaggio da quattro mesi, chi è malconcio ma mostra quel senso di appartenenza a un rango superiore della categoria.
Ottocento chilometri da Hendaye, all’estremo sudovest della Francia, fino alla maestosa Cattedrale di San Giacomo, questo il suo percorso, lungo il Camino del Norte e il Camino Primitivo; Rufin è un camminatore laico, all’inizio osservatore esterno del fenomeno dei cammini, spesso ironico e dissacrante, il libro scorre leggero e fa sorridere. Ma man mano che Rufin vive il suo cammino, il punto di osservazione è sempre meno esterno, in una fase centrale l’autore-camminatore ha anche un periodo di forte ricerca spirituale, quando arriva a Oviedo.
Anche lui si accorge come il cammino sia un’altra cosa dal turismo che cerca il pittoresco:
“Poche decine di chilometri di asfalto ammorbidiscono quella carne ancora troppo dura: il pellegrino è lì per camminare, che gli piaccia o no, che sia soddisfatto o no dei paesaggi! Pipe-line in cemento e fabbriche, lottizzazioni deserte e corsie d’emergenza, rotatorie e periferie industriali sono necessarie per diventare un vero pellegrino, immune da ogni pretesa turistica. Sferzato dalle prove, il camminatore si sente dapprima un po’ suonato. Poi si conforma alla sua sorte. Comincia allora una nuova fase del Cammino: essa non richiede l’entusiasmo, ma l’abitudine e la disciplina”.
Il pellegrino rimane nudo, e Rufin si alleggerisce man mano di tanti orpelli superlui. Già da subito perde il bisogno dell’apparire, si lava poco, si sente simile a un clochard. Poi si libera del peso dei sogni e dei pensieri. Infine si alleggerisce della fede, che aveva provato a cercare nei santuari e negli ermita.
Rufin osserva se stesso, e racconta cosa gli cambia dentro man mano che procede sul Camino. E fa alcune grandi scoperte, una su tutte: Compostela è un pellegrinaggio buddhista. “Partendo per Santiago non cercavo niente e l’ho trovato”.
Libro per tutti quelli che amano il Cammino di Santiago, per tutti quelli che amano il nuovo modo di camminare, atto di ricerca dei valori del mondo, atto di riflessione sulla propria vita. Dal cammino non si torna uguali a prima, qualunque cammino sia, e Rufin ne è la prova vivente.
Agustin Gomez-Arcos – “Ana no”, L’Ippocampo 2005
Questo libro in Italia è stato pubblicato grazie a Edith de la Héronnière, filosofa e pellegrina francese (sarà ospite al Festival del camminare di Bolzano, 23-25 maggio 2014), che cura una collana per la piccola casa editrice L’Ippocampo, collana dedicata ai “testi dell’erranza”.
Ana no fu pubblicato in Francia nel 1977, e vinse un premio dei lettori, Le Prix du livre Inter. In Italia invece fu pubblicato nel 2005, ma con poca visibilità. Ma Ana no merita di essere ripescato dall’oblio. È un bel romanzo. L’autore è Agustin Gomez-Arcos, morto nel 1998, scrittore libertario, fuggì alla censura del franchismo in Spagna, e trovò rifugio in Francia. La storia è ambientata appunto durante il franchismo. È la storia di Ana, che durante la guerra civile ha avuto il marito e due dei tre giovani figli morti e seppelliti in una fossa comune. Il terzo, il “piccolo”, è in carcere a vita perché comunista. Lei non sa leggere e quindi strappa ogni anno la lettera che le arriva dal carcere, e aspetta il ritorno del figlio. Dopo trenta anni di attesa sofferente, Ana decide di mettersi in cammino. Vuole vedere il figlio prima di morire, il figlio è rinchiuso in una prigione in qualche luogo nel Nord. E cammina sei mesi. È un cammino nella sua sofferenza di madre e moglie a cui è stato tolto tutto, è un cammino di crescita, Ana parte analfabeta, e impara a parlare, a scrivere, a esprimersi. È un cammino verso la morte, una morte paziente, che sa attendere il suo momento.
Il cammino parte dal mare di un villaggio andaluso, e Ana lo prepara con cura. Ci mette due giorni a cucinare un dolce speciale, fatto con tutto l’amore di cui è ancora piena. Segue la ferrovia, incontra poche persone nei suoi mesi di cammino, evita i paesi, ma il viaggio è sempre sorpresa, quindi tutto pian piano cambia, e i suoi compagni di viaggio saranno una cagna malata, poi un cantante di strada cieco, e infine un piccolo circo sgangherato. Pian piano Ana perde tutto, sempre più miserabile, sempre più pura. Perde anche Dio, per lei un estraneo. Ma alla fine di questo cammino interiore c’è il freddo, la neve e la morte paziente che l’aspetta, e Ana si presenta alla morte nella sua purezza. Un testo, Ana no, che a diritto entra nella biblioteca dei camminanti.
Robert Macfarlane – “Luoghi selvaggi”, Einaudi 2011
Robert Macfarlane scrive bene. E ha una sensibilità speciale. Sa raccontare la natura. Nella tradizione anglosassone, questo libro racconta la “selvaggità”, la wilderness, come non si vedeva dai tempi di Thoreau.
Macfarlane era amico e allievo di Roger Deakin (scomparso nel 2006), i pochi che conoscono Deakin in Italia ricordano la sua capacità di estasiarsi e di raccontare le piccole scene naturali a cui l’autore assisteva nei suoi cammini e nella sua vita in campagna, un “esploratore della contrada ignora che ci dimora accanto”. Ma Macfarlane è, ai miei occhi, più interessante, perché racconta sia il piccolo che il grande, alterna continuamente nel suo libro piccoli ritratti acquerellati, descrizioni storiche e ricerche scientifiche. Il risultato è molto piacevole, l’obiettivo è quello di raccontare i luoghi selvaggi che ancora esistono in Gran Bretagna, costruendo una mappa ideale tutta sua, che va dalle incredibili brughiere del Rannoch Moor alla foresta di Black Wood, dal capo Wrath alla cima del Ben Hope all’isola di Ynys Enlli.
Mentre leggevo questo libro ho scoperto, non casualmente, che Robert Macfarlane ha appena pubblicato anche in italiano, sempre per Einaudi, il suo ultimo libro, Le antiche vie. Un elogio del camminare, l’ho subito ordinato e vi farò sapere presto se merita la lettura.
Luoghi selvaggi merita senz’altro, soprattutto per quegli animi contemplativi che sanno fermarsi a osservare il volo di un uccello o la forma di un sasso, facendosi tante domande. Macfarlane conclude: “Ci siamo frantumati in mille pezzi, ma la natura selvaggia può ancora restituirci a noi stessi”.
E la voglia di camminare nelle brughiere scozzesi o di scoprire piccoli angoli selvaggi vicino a casa, un boschetto, un ruscello, una spiaggia fuori stagione, dormendoci una notte col sacco da bivacco, diventa irresistibile…
Sarah Gregg, Bruno Petriccione – “Regio Tratturo Celano – Foggia”, SER 2013
Sarah Gregg e Bruno Petriccione stanno facendo un bellissimo lavoro di recupero dei tratturi al camminare. Dopo aver pubblicato la guida del Pescasseroli – Candela, quindici giorni di cammino partendo dall’Abruzzo, lungo il Molise, fino in Puglia, ecco la loro nuova fatica deambulatoria, la riscoperta a piedi del tratturo Celano – Foggia, le stesse tre regioni attraversate su un percorso parallelo, in dodici giorni di cammino.
Le due guide sono edite da SER, in una bella collana di libri con anelli, comodi da tenere al collo mentre si cammina. Il Regio Tratturo Celano Foggia è lungo 208 chilometri, e transita da luoghi importanti: Sulmona, Roccaraso, Pietrabbondante. Ma il valore di questi cammini sta nel paesaggio, la vera risorsa dell’Italia minore. Un paesaggio spesso incontaminato, rurale, camminarci dentro significa conoscere un’Italia che scompare, e gli incontri con pastori, contadini e gente di paese è sempre una grande sorpresa.
Come detto del precedente libro, anche questo è scritto con dovizia di informazioni e dettagli. Scientifici innanzitutto, essendo i due autori divulgatori e naturalisti esperti. Ma anche informazioni pratiche, ogni tappa contiene una mappa, l’altimetria, una descrizione precisa, con tracce GPS richiedibili all’editore, e i possibili punti tappa.
Punti tappa che erano il punto debole del precedente lavoro. Soprattutto in Molise, strutture ricettive aperte solo pochi mesi all’anno, e spesso con la regola poco in sintonia con noi camminatori del soggiorno minimo di tre notti. Ci auguriamo che anche in questi territori minori si capisca che il turismo a piedi è il futuro, e se non si coglie l’occasione di una guida così bella per attrezzarsi a dovere aspettando i camminatori, quando ripasserà un treno così?
Mélanie Delloye – “Il ritmo dell’asino”, Ediciclo 2013
Nella collana “Piccola filosofia di viaggio” esce un libretto dedicato all’asino. La collana nasce in Francia, dall’editore Transboréal, e questo libricino è del 2009 e tradotto adesso dal francese. Nello stile proprio della collana, in novanta pagine dal tono leggero l’autrice ci lancia suggestioni, pensieri, esperienze sull’equino dalle orecchie lunghe, esperienze maturate dall’autrice, che con il marito, due figli e due asini ha camminato per tre anni dal Belgio al Portogallo. E in questa lunga convivenza di cose l’autrice ne ha imparate molte, su questo splendido e misterioso animale. Quindi è un libretto utile a chi si vuole avvicinare all’asino con umiltà e reverenza.
Contiene qualche consiglio interessante. Un esempio: “Quando si cammina con due asini, ci si deve accontentare di guidarne uno solo. L’altro si attarda vicino a un cespuglio di biancospini, e vi raggiunge al trotto. Generalmente conduco l’asina. Povera femmina, sempre alla cavezza. Ma sotto le sue lunghe orecchie si nasconde uno spirito di capo. Mollate un qualsiasi equide al pascolo, saprà subito capire chi conduce il branco. Chi cammina su lunghi percorsi può, dopo qualche tempo, mollare il suo asino. In due formano una mandria e un asino seguirà fedele. Ma parecchi asini formano una mandria autonoma, e allora attenti alle scappatelle!”.
Ma anche aneddoti del loro viaggio, per esempio: “non abbiamo ancora finito di montare la tenda sul bordo di una stradina che riceviamo la visita lampo di una mamma con la figlia che ci offrono un chilo di carote comperate al momento per gli asinelli. Per noi che siamo i padroni – o per lo meno che crediamo di esserlo – nessuna considerazione, ma per le bestie carezze e smancerie… Eccoti vendicato, asino domestico, vendicato dai millenni di schiavitù e di crudeltà. Sarai coccolato mentre il tuo padrone potrà crepare lì, assetato, affamato e sudato e si poteva benissimo restare a casa invece di fare gli stevenson approfittando di un innocente!”.
Eugenio Bennato – “Ninco Nanco deve morire”, Rubbettino 2013
Eugenio Bennato ha scritto un bel libro. Dal titolo “Ninco Nanco deve morire” (Rubbettino Editore). . È un libro che ci parla di Bennato in forma autobiografica, per spunti tematici legati al brigantaggio e alla sua musica. Sapientemente alternati. Bennato ci racconta la sua versione della questione meridionale. Perché nella sua carriera Bennato ha sempre di più affrontato sia nelle canzoni che nei suoi approfondimenti personali, la questione meridionale e le false verità dell’unificazione risorgimentale. E vuole proporre un modello alternativo positivo, in cui sud diventi un valore e non un’arretratezza. Citando pensatori come Franco Cassano, per esempio. Nel cui pensiero meridiano si afferma che i valori tipici del sud, ospitalità, cultura del dono, appartenenza alla comunità, lentezza, rapporto con la natura, matriarcato, sono i veri valori dell’oggi, di una società antagonista a quella capitalista ufficiale. Per Bennato i “nuovi briganti” sono coloro che si rifanno a questi valori: i giovani dei movimenti, chi fa scelte di vita controcorrente, chi decresce, chi va lento (e noi possiamo iscrivere i camminatori come noi in questa categoria di nuovi briganti).
Questi spunti di riflessione nel libro, come dicevo, si alternano sapientemente all’analisi di alcune canzoni di Bennato, di cui ci racconta come sono nate, come sono cresciute, ed è interessante vedere quanta consapevolezza e attenzione c’è in Bennato nel dare un senso a ogni singola parola di ogni sua canzone. C’è poi tutta la vicenda della canzone “Brigante se more”, scritta da Bennato nel 1980 per la colonna sonora dello sceneggiato tv “L’eredità della priora”, ma poi diventata inno popolare al punto da dimenticarsi l’autore. Per cui per molti quella canzone era una vera canzone di lotta dei briganti ottocenteschi, e molti nel sud giurano che il loro nonno gliela cantava da piccoli… ma nella versione filo-borbonica riscritta in malo modo da un reazionario monarchico (che poi ha confessato sotto pressione di Bennato) che storpia il discorso della canzone originaria e la metrica musicale. Caso interessante di come le opere sfuggano dalle mani degli artisti e facciano strade imprevedibili.
Conclude Bennato: “Sono loro i briganti di oggi. Sono tanti. Sono una variabile impazzita nel nuovo ordine dei potenti della Terra. Sono i nuovi briganti del mondo reale. Che si contrappone con la sua energia creativa all’appiattimento pianificato del mondo virtuale. Loro esistono, ma le luci dei set televisivi non si accendono mai sui loro volti. La cultura ufficiale si ostina disperatamente a non vederli… Un po’ come successe al maledetto, indifendibile, inesistente Ninco Nanco, che dopo essere stato eliminato da un confuso proiettile nel 1864 è stato ucciso ancora migliaia di volte, giorno dopo giorno, per centocinquant’anni.”
Frédéric Gros – “Andare a piedi. Filosofia del camminare”, Garzanti 2013
Seguivo Frédéric Gros da qualche tempo perché un amico mi aveva parlato del suo libro. Bel colpo averlo tradotto in italiano! Bel colpo per noi camminatori, perché abbiamo con questo libro l’opportunità di fare nuove riflessioni sulla nostra passione. Gros è docente di filosofia all’Università di Parigi, ed è appassionato di camminare. Ecco che il suo libro mette insieme le due competenze e ci parla, a capitoli quasi alterni, di grandi pensatori, filosofi, scrittori, poeti del passato per i quali il camminare era importante, ma ci parla anche di come Frédéric Gros ha saputo costruire una sua filosofia del camminare.
Diciamolo subito: il libro è molto leggero, non è un trattato che si prende troppo sul serio, Gros ha il dono della divulgazione. E racconta filosofi come Rousseau, Nietzsche o Thoreau partendo dalle loro vite private, dalle lettere o dagli appunti, per mostrare come per costoro il camminare fosse alla base del loro pensiero, cosa che a scuola nessuno ci aveva raccontato. Senza il camminare, insomma, Rousseau, Nietzsche, Thoreau, Rimbaud, ma anche Kant e Gandhi, non sarebbero stati loro, cioè non avrebbero espresso la loro creatività.
Una analisi interessante Gros la fa partendo dalla filosofia greca. Non è vero, secondo lui, che i filosofi greci amavano camminare. Peripatetici solo di nome, ma nei fatti stanziali. Gli unici che hanno uno spirito da camminanti sono i cinici. Sempre a vagare, a vagabondare di città in città. Bastone in mano, come vestito un pezzo di stoffa, bisaccia quasi vuota. È a loro che assomiglierà il pellegrino medievale. Predicando una filosofia molto in sintonia con il camminare. Esiste solo “l’elementare”: il sole, il vento, la terra, il cielo. E la natura come crudezza: selvaggia, spudorata. Per i cinici, poi, la conquista è di saper dar valore solo al “necessario”:
Un giorno Diogene vede, alla fontana, un bambino che per bere unisce a coppa i palmi delle mani. Il cinico si ferma di botto, sbalordito, e dichiara: un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità. Allora estrae dalla magra bisaccia una coppetta di legno e la butta via con un sorriso di trionfo. Felice perché ha trovato il modo di alleggerirsi.
Anche Gros impara tanto dal camminare, e noi dal suo libro per esempio impariamo una riflessione importante sul fatto che in cammino si provano tutti gli stati del benessere, in modo diverso, ma in modo completo: gioia, piacere, serenità, felicità. Perché il piacere è un benessere fisico, dato dall’incontro, mangiare mirtilli o more, per esempio. La gioia è atto attivo ed esigente e in cammino la gioia è un basso continuo, pienezza, gioia di esistere. La felicità è un attimo, irripetibile, per questo fragile. La serenità è distacco, nell’alternanza di riposo e movimento. La serenità è legata alla lentezza del cammino, al suo carattere assolutamente ripetitivo, bisogna rassegnarcisi. Non resta altro da fare che camminare, nient’altro.
Insomma, un libro che entra di diritto nella biblioteca dei camminanti.
Unica nota dolente: i traduttori continuano a fare un errore nella traduzione di “marche” dal francese. Errore fatto in passato con il libro di Le Breton da Feltrinelli (Elogio della marcia), errore fatto adesso fortunatamente non nel titolo (che da “Marcher, une philosophie” poteva erroneamente diventare “Filosofia della marcia”) ma nel testo spessissimo si parla di marcia, dove è chiaro che in italiano si deve intendere cammino, camminare, camminatore, camminante, ecc. Con la marcia noi non centriamo niente, la marcia è militare o è sportiva, noi no.
Wu Ming 1, Roberto Santachiara – “Point Lenana”, Einaudi 2013
Per chi non ha mai letto niente dei Wu Ming
Questo libro è scritto da Wu Ming 1, del collettivo di scrittori Wu Ming di Bologna. Insieme a Roberto Santachiara, agente letterario e appassionato di alpinismo e viaggi.
L’idea di Santachiara è stata: scegliere un bravo scrittore che ha il fiuto del segugio, ripercorrere una storia incredibile come quella di Felice Benuzzi che nel 1942 scappò dal campo di prigionia inglese in Africa per scalare con due compagni di cella il Monte Kenya, per poi riconsegnarsi alle autorità britanniche. E raccontarla. Santachiara e Wu Ming 1 hanno scalato come prima cosa il Monte Kenya, per immedesimarsi nel protagonista. Per Wu Ming 1 è stata la prima occasione in vita sua per misurarsi con cose “di montagna”. Poi hanno cominciato a investigare la storia di quest’uomo, che – come la storia di ogni uomo – attraversa periodi storici importanti, incontra protagonisti di quel periodo. La storia di un uomo e la storia di un popolo si intrecciano, in questo libro che Wu Ming 1 definisce un “oggetto letterario non identificato”.
Per chi già conosce i Wu Ming
Wu Ming 1 è di formazione uno storico. E si vede. Questo libro rispetto agli altri libri che ho letto dei Wu Ming (ho letto tutti quelli del collettivo, e come opere soliste solo quelli di Wu Ming 2) l’impronta storiografica è molto più preponderante. È un libro di storia, ma non è un libro di storia. Parla del passato per parlare al presente, come sempre sanno fare i Wu Ming. Nel ripercorrere la vita di Felice Benuzzi, il libro ci racconta i dettagli dell’irredentismo di Trieste, la “fedelissima” che diventa italiana; ci racconta tante storie di alpinisti, soprattutto di Emilio Comici che era quasi-amico di Benuzzi, era il più grande scalatore del periodo ante guerra, ma non era un fanatico fascista, era un rocciatore e basta, e il CAI, fascistissimo, lo emarginò; ci racconta la storia delle guerre coloniali di conquista, in Africa, per costruire l’impero mussoliniano, dei massacri folli di Graziani e Badoglio, e smonta la teoria che noi italiani siamo stati meno terroristi delle altre nazioni, portando le prove storiche dell’uso dei gas chimici in modo massiccio, anche se la comunità internazionale li aveva vietati, l’Italia fu l’unica a usarli sterminando migliaia di innocenti.
In tutto questo, Felice Benuzzi ne esce come un uomo mite, dedito al suo lavoro di funzionario, dedito alla famiglia, una bella famiglia, e alla passione per i viaggi e per la montagna.
Ma il libro ci racconta indirettamente anche l’Italia di oggi, paese che ha perso la memoria. Abbiamo fatto una operazione di rimozione gravissima, e ne stiamo pagando alto lo scotto. Perché la memoria di quegli anni potrebbe insegnarci tanto. Ma abbiamo preferito far finta di niente, non sapere. Non sapere cos’è successo in Etiopia o nelle altre “colonie” del nostro misero Impero. Troppo poco sappiamo del periodo fascista, troppo poco insegniamo ai nostri figli. Da quell’esperienza potremmo far emergere i valori migliori, capire il valore della pace, della condivisione, del senso di comunità. La cultura della non memoria ci porta invece verso il baratro dell’egoismo. Il baratro ce l’abbiamo sotto gli occhi. La memoria storica, e libri come questo, ci aiutano a pensare che un altro modo di vivere non solo è possibile, ma è necessario e urgente.
Elisabetta Orlandi – Un milioneottocentomila passi”, Edizioni Paoline 2012
Ogni diario di cammino verso Santiago ha le sue ragioni d’esistere. Per se stessi, perché scrivere in cammino è un aiuto a guardarsi dentro. Ma anche per gli altri. Che imparano e partecipano al viaggio. Ogni diario di cammino che leggo, mi sento di essere in cammino anche io.
Il diario di Elisabetta Orlandi ha una particolarità: è il primo in cui si racconta un cammino di Santiago con un bambino di otto anni.
Una donna, una mamma. E un bambino. Ed è commovente vivere passo dopo passo la determinazione e l’amore di questa donna per il figlio e per il Cammino.
La forza di questo diario sta nel fatto che l’autrice vive questo Cammino con grande gratitudine, ogni passo è un ringraziamento per poter camminare con suo figlio. Un atto di coraggio e di fede. E di fiducia in se stessi e nel mondo. Bello, no?
Il piccolo Johann insegna alla madre una cosa importante; a rallentare. Sul cammino non serve avere fretta, rispettare tabelle di marcia, competere con gli altri pellegrini. Anzi, chi va piano sul cammino avrà un dono in più.
Ovviamente mamma Elisabetta ha tanti dubbi, e qualche senso di colpa: ce la farò? sto forzando troppo il mio bambino Johann a fare una cosa più grande di lui?
Ma le risposte arrivano ogni volta positive:
“Mamma!”
“Dimmi, bambino!”
“Niente, è bello camminare con te”. Mi sorride con gli occhi, mi dà la mano. Siamo felici.
All’improvviso ho la risposta alla mia domanda. Come faremo? Semplice, un passo dopo l’altro.
Libro consigliato a tutti i camminanti; se poi avete voglia di andare a Santiago, ma siete indecisi, questo libro fa proprio per voi: difficile resistere al richiamo del Cammino dopo averlo letto!
Piccola nota sul titolo: è una gara al rialzo. In passato sono apparsi diari dal titolo “Contare i passi” e “Un milione quattrocentomila passi sulla Francigena”. Qui siamo al milione e ottocentomila. C’è bisogno da parte dei pellegrini (o degli editori?) di mettere lì un numero, di contare i propri passi. Per dare entità, valore al proprio cammino. Ma il cammino ha valore in sé, anche se fatto di un solo passo. Il numero dei passi è pochissimo importante, quel che conta è lo spirito con cui si compiono quei passi, la consapevolezza del singolo passo. Consapevolezza di cui l’autrice è ricca. Quindi mi auguro che la gara al rialzo non continui. Avrei intitolato questo libro “Io e il mio bambino a piedi verso Santiago”. Perché questo è.
Édith de La Héronnière – “La ballata dei pellegrini”, Sellerio 2004
Il miglior diario di un pellegrino verso Santiago che abbia mai letto. E ne ho letti tanti, vi assicuro. Li leggo da anni, questo mi era sfuggito.
Chi è Édith de La Héronnière? Filosofa, scrittrice, intellettuale di origine normanna, scrive alla ricerca dello spirito dei luoghi. Sa andare in profondità. Il suo cammino verso Santiago parte dalla Francia, Vezelay, in Borgogna, dove vive. Non è un viaggio recente, l’edizione francese del libro è del 1993. Quando il cammino di Santiago era un’altra cosa. Questo sicuramente ha giocato a favore dell’autrice. Ma poco conta. Anche se camminasse oggi, Édith de la Héronnière ci illuminerebbe. Perché il suo racconto è filosofia pura.
Era partita da Velezay, insieme a due compagni di viaggio, un americano e un canadese. Poi per strada si è unita un’altra giovane donna americana. Da casa, tre mesi di cammino. In armonia con i compagni, ma anche litigando, bestemmiando. Cercando il lato mistico del cammino. Spesso trovandolo, nelle piccole cose, nei gesti comuni. Nei momenti di crisi e di sofferenza.
Dopo quasi duemila chilometri, a trenta chilometri da Santiago, l’ultima crisi: i corpi si tirano indietro, dicono no. “Non vedremo mai Compostella, non arriveremo”. “Arrivare è un’arte non meno difficile che quella di partire. Non è semplice apporre il punto finale”.
Poi l’arrivo, e la restituzione della dignità al pellegrino.
Pellegrini, viandanti, camminatori, leggetelo. Attenzione, però: astenersi se siete uomini o donne di salda fede, di saldi principi e ideali, poco disposti a mettervi in gioco. Vi irriterebbe e basta.
Simone Frignani – “Il cammino di San Benedetto”, Terre di Mezzo 2012
Il Cammino di San Benedetto unisce le tre città benedettine Norcia, Subiaco e Cassino con un percorso a piedi di 300 chilometri che parte dall’Umbria, al terzo giorno entra nel Lazio, passa il rietino nei luoghi cari a San Francesco, poi segue i Simbruini per arrivare a Cassino dopo 16 giorni di cammino.Il libro inizia presentando la figura di San Benedetto da Norcia, e la Regola benedettina. Si passa poi alle informazioni pratiche per chi intende percorrere il cammino: come ritirare la credenziale, i consigli sull’attrezzatura e sullo stile per essere veri pellegrini, e la descrizione tappa per tappa del percorso. Per ogni tappa riporta i consigli su dove dormire (sia in luoghi pellegrini che in strutture ricettive) e una scheda sulle emergenze storiche, sui santi e sugli ordini religiosi di cui cercare tracce nella tappa stessa.
L’autore della guida, Simone Frignani, gestisce anche un sito internet in cui potete trovare altri materiali, scaricare le tracce gps e leggere gli aggiornamenti prima di partire: www.camminodibenedetto.it
David Guterson – “Un segreto di boschi e di stelle”, Longanesi 2011 Non conosco David Guterson, e questo libro mi è capitato tra le mani per caso. Quindi, confesso, ho iniziato a leggerlo svogliatamente. Il titolo è poco seducente (l’originale “The Other”, “l’altro”, è senz’altro più appropriato e centrato) e la fascetta promozionale non attira.
Ma il libro cattura, Guterson scrive bene, e la storia è una bella storia. Non ci sono buoni né cattivi, non ci sono cose giuste e cose sbagliate, ma persone, con le loro complessità, i loro misteri, le loro contraddizioni e difficoltà.
L’altro del titolo è l’amico del cuore, con il quale il protagonista ha stretto un patto di sangue. L’inizio della storia ricorda molto “I vagabondi del Dharma” di Kerouac. L’iniziazione alla natura selvaggia e alle esperienze di vita di due ragazzi adolescenti, che alternano scalate esagerate a momenti di quiete in cui fumarsi canne su canne. Poi uno dei due, l’altro, John William, prende una piega strana. Legge gli gnostici, vuole scappare da un Dio cattivo che lo vuole punire, e da bravo ex scout decide di lasciare tutto e vivere nella natura selvaggia. E qui c’è un po’ di Thoreau, un po’ di Krakauer, la storia di “Into del wild” sullo sfondo. John William è uno senza mezze misure: a venti anni trova una pozza d’acqua calda e comincia a scavare con un piccone una grotta per vivere in una zona completamente selvaggia tra Seattle e il Canada. Scava la roccia calcarea per mesi, fino a costruirsi un rifugio, poi molla i contatti col mondo, fa perdere le sue tracce, organizza i dettagli per vivere da eremita, solo l’amico Neil lo va a trovare per quel patto di sangue che li lega, per portargli ogni tanto generi di conforto fisici e intellettuali. Scatolette di schifezze, copie di Playboy, insieme a testi di letteratura cinese e gnosticismo. Entrambi sanno di non essere dei puri, di vivere un mondo che si è allontanato dalla purezza. John William non è un ingenuo, era lo studente più intelligente della sua generazione. Nella natura, nella vita selvaggia cerca la redenzione, cerca la semplicità delle cose, cerca la verità. E la trova, forse. Ma dopo qualche anno di eremitaggio muore in un incidente banale, mentre è solo vicino al fuoco. A questo punto il protagonista Neil eredita la fortuna di John Williams, che era ricchissimo. E qui i temi diventano altri: come i primi mesi di vita siano centrali nella formazione dei traumi di un adulto, e la ricostruzione dei primi mesi di vita di John William ci dirà di più sulla sua scelta estrema; come si vive quando da adulti ci si trova improvvisamente ricchi, il bene e il male di questo colpo di fortuna… e altri spunti interessanti di riflessione.
Oltre ai libri già citati, questa storia richiama alla memoria anche il libro di Wu Ming 2 “Guerra agli umani”, con un protagonista che decide di andare a vivere in una grotta…
In fin dei conti un bel libro, che merita la lettura.